STORIA IMPERIALE MEZZANOTTE MEZZOGIORNO 2 PARTE

prima leggete la prima parte

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  1. ultimoparhasar
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    prima leggete la prima parte se no non potete capire la storia


    p.s. non l'ho scritta io eh!


    PER NON ANDARE DOVE NON PUOI ANDARE FANNO I
    CARTONI ANIMATI
    Magari la gente mi ha sempre visto come una specie di scienziato pazzo
    con la testa tra le nuvole, ma io sono assolutamente convinto di essere una
    persona molto concreta. Non ho mai pensato di studiare matematica, una
    disciplina completamente astratta nella quale il risultato degli sforzi che
    uno compie sono oggetti altrettanto astratti e impalpabili. Della chimica mi
    è sempre piaciuta l’idea di ridurre la materia a una serie di formule e alla
    combinazione di particelle elementari, e il fatto di poter riprodurre e
    osservare personalmente i risultati teorici in laboratorio.
    Quando procedi a una sintesi è una sensazione meravigliosa. Ti senti come
    un vero scienziato. Il camice, il laboratorio improvvisato nella cantina
    della colonica, Niccolò e Matteo, davanti a me, in attesa che i cristalli si
    condensino.
    Per procurarsi il materiale necessario è sufficiente fare un giro in Olanda.
    Bastano pochi milioni per attrezzare un laboratorio completo. Le sostanze
    necessarie, poi, si trovano con facilità in qualsiasi laboratorio universitario
    di chimica organica, o anche in negozi specializzati in forniture chimiche. A
    volte può essere un problema procurarsi la metilammina, perché a quanto
    pare è una sostanza controllata, e non la si può comprare se non con
    un’autorizzazione particolare. Ma, con un po’ di pazienza e cautela, la si
    può sottrarre poca alla volta da un laboratorio universitario senza dare
    troppo nell’occhio.
    E quando alla fine provi il risultato del tuo lavoro su te stesso, quasi fosse il
    vaccino per una malattia incurabile, senti anche un brivido di paura.
    Dopotutto, potresti anche aver sbagliato qualcosa. Ma alla fine, la roba
    fatta con le tue mani è sempre la più buona del mondo, e le sensazioni che
    ho provato la prima volta non le ho più riprovate. Alla prima, ne presi 50
    milligrammi. Meno di metà dose, giusto per stare sicuri, nel caso avessi
    fatto qualche cazzata. Niccolò e Matteo erano con me, avevano pronto un
    emetico e la macchina per portarmi in ospedale se mi fossi sentito male.
    Ma bastarono venti minuti per capire che era tutto a posto, e che era venuta
    proprio bene. Nulla a che vedere con quella che avevo provato finora.
    Tagliata chissà con cosa, altri anfetaminici o addirittura aspirina. La sera
    dopo ne presi centoventi milligrammi. E allora si che mi sembrò di volare.
    Non ce la facevo a stare chiuso in casa ad aspettare che mi calasse, e
    pregai Niccolò e Matteo che mi portassero fuori. Niccolò preparò due
    bustine da cento milligrammi l’una. Matteo accese la macchina. Era
    venerdì, e come diceva Francesconi: “conosco la mia strada: è venerdì
    notte, vola Torquemada!”. Per arrivare a Campi Bisenzio ci vollero circa
    quaranta minuti. C’era un sacco di gente quella sera, suonavano Stefano
    Bratti e Francesco Farfa, più uno spettacolo del Principe Maurice. Coda
    incredibile all’ingresso, io non ce la facevo ad aspettare fermo. Matteo
    chiamò Alessandro, lui vide lo stato in cui ero, cacciò una risata e ci fece
    passare. Ricordo che Matteo mi abbracciò e gli disse:
    – Sai che quella di stasera se l’è fatta da solo, il piccolo chimico?
    Alessandro rise di nuovo, Matteo tirò fuori la bustina coi cristalli non
    ancora pressati e gliela mostrò. Poi Matteo e Niccolò presero la loro dose.
    E mi raggiunsero tra le stelle.


    IMPERIALE MI HAI FATTO ANCHE SOFFRIRE
    Quella notte non chiusi occhio. Alle sette mi alzai dal letto, ma invece di
    scendere subito in cucina aspettai che Luca si svegliasse per fare colazione
    con lui. Alla fine, poco dopo le otto, sentii la porta della sua stanza aprirsi.
    – Buongiorno.
    – Buongiorno una sega.
    – Credo di aver capito la situazione. Lei era la ragazza di Niccolò.
    – Possibile che mi debba perseguitare anche qui? Io sono venuto per stare in
    pace, lontano da lei e dal suo mondo.
    – Veramente credevo che tu fossi venuto qua per non andare in galera.
    – Non dire idiozie. Non ho paura della galera.
    – Ti hanno dato sei anni in contumacia.
    – E allora? Io sono venuto qua perché non potevo reggere il peso della
    morte di Niccolò.
    – Questo è quello che racconti a te stesso.
    – Che fai adesso, ti metti a farmi da coscienza critica?
    – Come vuoi. Cerco solo di aiutarti. Devi essere consapevole della
    situazione. Sei solo tu che dai a Alessia tutto questo peso. Ti assicuro che
    lei non corrisponde.
    – Lo so.
    – E ti dispiace.
    – Forse.
    – Avrei voluto vederla vestita a lutto?
    – No. Forse mi avrebbe fatto piacere che lei mi avesse cercato per parlare di
    Niccolò. Non l’abbiamo mai fatto, non ne abbiamo mai avuto occasione.
    Forse li ho invitati con questa speranza.
    – Evidentemente Alessia ha superato la questione meglio di quanto non
    l’abbia fatto tu.
    – Questo lo vedo.
    – E questo non vuol dire che lei sia insensibile, o che non le dispiaccia.
    – Mi ha fatto veramente imbestialire insinuando che la morte di Niccolò sia
    stata colpa mia. Se qualcuno ha una colpa, quella è lei.
    – Nessuno ha colpa. Siete stati voi a scegliere quella strada. Tu e Niccolò,
    autonomamente l’uno dall’altro. Lui non ti ha seguito per inerzia. Né ha
    seguito per inerzia Alessia. Eravate entrambi consapevoli di quello a cui
    andavate incontro. Io e Marco ve ne abbiamo parlato varie volte, mi pare.
    Famiglia Imperiale, dicevate. O meglio, tu dicevi. Non c’era verso di
    discuterne. Tu non ragionavi, facevi discorsi campati in aria e ti
    arrabbiavi. Niccolò non parlava. Prendeva quell’aria da vittima che ci
    faceva imbestialire a tutti. Sembrava che di averlo precipitato in quella
    situazione accusasse il mondo intero. Noi inclusi.
    – Già, famiglia Imperiale. Io ci credevo davvero. Mi chiedo se anche
    Niccolò ci credesse, o se volesse solo stare con Alessia.
    – Questo non lo possiamo sapere. Ma in ogni caso, anche se fosse, non
    vorrebbe dire che è stata colpa di Alessia. Io direi che rispondeva tutto a
    delle sue personali pulsioni. Ho sempre pensato che fosse un modo di
    ottenere attenzione.
    – Si, forse hai ragione. Devo solo smetterla di pensarci. Tutto qui.
    Io alla famiglia Imperiale ci credevo. E mi sentivo di farne parte. Cominciò
    tutto con pochi amici nel salone da ballo con la terrazza, qualcuno metteva i
    dischi. Franchino allora faceva ancora il parrucchiere all’isola d’Elba e
    veniva a intrattenerli con le sue storie. Poi nacque l’idea del club, si
    iniziarono a chiamare i deejay emergenti, Miki, Andrea Giuditta, Ricky Le
    Roy. E nel giro di un anno Tirrenia era diventato il cuore pulsante d’Italia, e
    non solo. Tutta la Toscana, Genova, Roma, Torino. Qualcuno anche dalla
    Svizzera, dalla Francia e da Londra.
    I problemi sono arrivati dopo. Quando hanno iniziato a girare troppi soldi e
    troppe persone. All’inizio ci conoscevamo tutti. Ci si poteva fidare. E anche
    coi nuovi arrivati, ci si intendeva subito. Ci legava la consapevolezza e il
    rifiuto del mondo a cui eravamo per nascita predestinati. E non da parte
    nostra: non eravamo noi che rifiutavamo il ruolo che la vita ci avrebbe
    voluto assegnare. Era il ruolo, o meglio l’umanità che attorno ad esso
    ruotava, a rifiutarci. La famiglia Imperiale era un mondo separato. Il paese
    dei balocchi. Nessuno fuori ne sapeva nulla. Nemmeno si poteva sospettare
    l’esistenza di un mondo del genere.
    Poi a un certo punto il meccanismo si è inceppato. Credo sia iniziato quando
    la voce ha cominciato a girare. Allora certi hanno iniziato a venire perché
    c’erano parecchie ragazze, e perché si diceva che erano facili. Alcuni
    venivano perché si poteva trovare roba buona a prezzi concorrenziali, e
    senza troppi problemi. Certi altri perché era una cosa insolita, di cui vantarsi
    con gli amici. E molti ci si sono buttati perché iniziavano a girare soldi. Ma
    quelli non facevano parte della famiglia. Hanno rovinato tutto.


    VOGLIO VIVERE SOLTANTO IN AFTERHOUR, E ALLORA?
    Se ci ripenso, posso tranquillamente giurare che quello che poi è successo
    non era nei nostri intenti. La prima volta lo affrontai come una prova;
    vedere se ero davvero un buon chimico come tutti i miei colleghi e i miei
    professori si aspettavano. Mostrare che ero in grado di concludere una
    sintesi da solo. Le prime volte ne facevo 40 grammi per volta. Bastavano
    per circa trecento paste. Ne portavamo qualcuna per noi, e qualcuna la
    regalavamo agli amici. Tutti ci dicevano che era roba ottima, neppure
    paragonabile a quella che si trovava in commercio. Per me era una
    soddisfazione enorme: famiglia imperiale, non solo ricevo, ma provvedo
    anche al tuo sostentamento. “A Tirrenia c’è la musica, da Firenze arrivano
    le cale”, diceva Franchino.
    Non ricordo con esattezza quando cominciammo a venderle. Direi che la
    parte maggiore in questo l’ha avuta Matteo. Lui era già introdotto nel giro,
    e aveva intravisto nella mia abilità con la chimica la possibilità di evitare
    le trasferte in Olanda e di incrementare i guadagni. Io vedevo la mia
    attività come un qualcosa che facevo per la famiglia, per le persone a cui
    volevo bene, e non mi andava l’idea di guadagnarci su. Però portarsene
    dietro così tante era un grosso rischio, diceva Matteo, e bisognava essere in
    qualche modo compensati. Inizialmente le vendevamo noi, agli amici e alle
    persone fidate. Poi Matteo iniziò a contattare degli spacciatori. Era più
    semplice e meno rischioso. Ci vedevamo per cena in qualche ristorante sul
    mare. Spesso alla torre di Calafuria. Dopo cena, mentre Niccolò pagava il
    conto, io e Matteo tornavamo alle macchine e passavamo la merce. Alle
    volte, quando avevamo qualche sospetto, si occupava di tutto Denise. Io
    andavo a casa sua, lei mi aspettava già eccitata. Facevamo una sveltina e
    poi le passavo la roba. Lei se la nascondeva addosso, nella biancheria
    intima, e la portava al destinatario. Era estremamente affidabile: mai, tutte
    le volte che l’ho vista con della roba addosso, che abbia tradito
    un’emozione. Una statua di ghiaccio. Perfetta per questo genere di cose.
    Nei primi anni, comunque, era una ambiente relativamente tranquillo.
    Certo, avere a che fare con gli spacciatori poteva essere rischioso. Matteo
    portava sempre con sé una pistola. Solo un paio di volte dovette tirarla
    fuori e appoggiarla sul tavolo del ristorante. Problemi di merce venduta a
    credito.



    NON C’È NIENTE DI LEGALE, NON C’ È NIENTE DI ORARIO
    Mirko ed Alessia ripartirono senza salutarmi, e io col passare delle
    settimane finii per dimenticare quell’incontro. Quell’autunno lavorammo
    bene, aiutati anche dagli attacchi terroristici dell’11 settembre: molte
    persone decisero di evitare i paesi musulmani per le loro vacanze autunnali.
    La seconda metà di novembre, come di consueto, chiudemmo l’albergo.
    Luca tornò in Italia a visitare i parenti, io presi la barca a vela e feci una
    puntata a Maio.
    Quei giorni furono per me benefici. Nella solitudine, ebbi modo di ritornare
    con la mente sull’incontro con Alessia e di rielaborare il modo in cui mi ero
    comportato. Per certo ero stato aggressivo nei suoi confronti; conoscendola
    non c’era da sorprendersi che si fosse chiusa e avesse reagito in quella
    maniera. Sicuramente avrei dovuto incontrarla senza il marito, una presenza
    che tra di noi risultava inutilmente imbarazzante nonché in qualche modo
    anche oppressiva. Senza sapere come trattare certi argomenti, con la paura
    di toccare temi che egli non avrebbe compreso. Avrei dovuto vedere Alessia
    da solo. Avremmo dovuto parlare di Niccolò, avrei voluto superare insieme
    a lei il lutto della sua morte.
    Alessia era stata la persona più importante nella mia vita. L’unica che aveva
    voluto ascoltarmi, guardarmi dentro, e considerare la sofferenza che le
    rovesciavo addosso come un dono prezioso. Accanto a lei mi sentivo bello,
    sicuro, importante. Un sentimento fortissimo, e purissimo. Per lei volevo il
    meglio, volevo che fosse felice e serena, perché per il bene che mi voleva si
    meritava di tutto. Ripensai a tutti i momenti passati assieme, alle notti di
    solitudine, alle risate per delle idiozie. Ripensai a come lei mi abbracciava
    quando cedeva alla disperazione e piangeva, mi stringeva così forte, come
    se fosse sull’orlo di un precipizio e cercasse di aggrapparsi a me. Ripensai a
    com’ero felice che lei stesse con Niccolò, perché per me significava averla
    sempre vicina, e sapere che era in buone mani. Ripensai a quell’unica volta
    che ci scambiammo un bacio. Eravamo appena usciti dall’Imperiale, una
    notte di settembre con un vento gelido che soffiava forte dal mare. Alle
    cinque erano venuti i carabinieri a chiudere, e noi ci ritrovammo per strada e
    senza mezzi di trasporto. Nell’attesa del bus per Pisa, ci rifugiammo nella
    cabina telefonica. Ma faceva freddo, ci abbracciavamo forte e alla fine
    l’abbraccio si sciolse in un bacio. E allora paura per quello che poteva
    significare, paura che avremmo rovinato la nostra amicizia e tradito quella
    di Niccolò, e ore di ansia nell’attesa di rivedersi e dover parlare di quello
    che era successo. Ci scrivemmo entrambi una lettera, e fu grande la sorpresa
    nel constatare che ci dicemmo la stessa cosa: che quel bacio era stato solo
    un modo diretto per trasmetterci l’affetto che provavamo l’uno per l’altro.
    Non feci che pensare a lei in quei giorni di solitudine. E alla fine mi risolsi a
    considerare che forse avrei voluto averla ancora al mio fianco. Ci saremmo
    dovuti rivedere, riprendere i fili della nostra amicizia, ricostruire il
    sentimento meraviglioso che c’era tra di noi. Mi sarebbe stato di
    preziosissimo aiuto, avrebbe spezzato la prigione di solitudine che mi ero
    inflitto. Avrei dato tutto me stesso per poterla avere di nuovo vicina.
    Quando Luca rientrò, mi fece piacere sapere che era stato a trovare Alessia,
    e che anche lei aveva manifestato il desiderio di incontrarmi di nuovo. Luca
    disse che Alessia si stava separando dal marito, e che in assenza di
    impedimenti sarebbe venuta a trovarci per capodanno.
    – Anche Alessia è molto colpita per quello che è successo. Magari sembrava
    che fosse riuscita a rifarsi una vita e a tirare avanti, ma dal quel che ho
    capito buona parte dei problemi che ha col marito dipendono dal fatto che
    lui non sa tutto quello che è successo.
    – Evidentemente impostare il rapporto su bugie e silenzi ha il suo prezzo.
    Questo comunque era un tratto tipico di Alessia.
    – Alessia avrebbe piacere di rivederti in un contesto più sereno e parlare con
    te di Niccolò.
    – Anche io ci ho pensato durante queste due settimane, e mi sembra una
    buona idea. Mi fa piacere che torni a Boavista.


    I 7 RE DI ROMA ERANO 4: ROMOLO E REMO
    La cosa più terribile è avere un sacco di soldi e non poterli spendere. Ti
    senti un interdetto. Sai che in una cassetta di sicurezza hai decine, forse
    centinaia di milioni e non puoi comprarti una macchina decente. Puoi
    usarli solo per spese di piccolo taglio. Vestiti, cene, qualche viaggio. Ma
    anche per i viaggi, non si poteva esagerare. Niccolò aveva un’attenzione
    maniacale per questi dettagli. Al limite della paranoia. Era convinto che
    qualsiasi negoziante da cui ci recavamo potesse essere un agente in
    borghese, o un collaboratore della polizia. Se si accorgono dei soldi che
    abbiamo, siamo fregati, diceva.
    Niccolò aveva aperto una cassetta di sicurezza a nome di sua madre alla
    Cassa di Risparmio di Firenze di piazza Dalmazia. A lei, aveva raccontato
    che la cassetta serviva per conservare gli orologi di valore che i genitori e
    altri parenti gli avevano regalato, nel corso degli anni, per le occasioni
    importanti. Teneva lui la chiave, e gestiva lui i fondi. Alle volte ci lesinava,
    altre volte arrivava con in tasca tre mazzette da dieci milioni l’una e ci
    diceva che dovevamo spenderle entro la fine della settimana. Altrimenti si
    sarebbero accumulati troppi soldi nella cassetta. Allora ci compravamo
    qualche vestito, oppure invitavamo a cena i nostri collaboratori e i corrieri
    in un ristorante di lusso. Non ho mai saputo quanti soldi ci sono passati da
    quella cassetta. Credo molti, però. Quando sono venuto via, c’erano poco
    meno di quattrocento milioni. La metà di quello che mi è rimasto la darò a
    Matteo, quando uscirà.


    IMPERIALE VI FAREMO IMPAZZIRE
    Alessia e Denise arrivarono il 28 Dicembre, con un cielo grigio cupo come
    non lo avevo mai visto. Andai io a prenderle all’aeroporto. Appena vidi
    Denise, un brivido mi corse lungo la schiena. Era sempre molto bella, e
    fisicamente non era per nulla sciupata. Mi corse incontro e, prendendomi di
    sorpresa, mi saltò in braccio. Mi baciò premendo le sue guance contro le
    mie, e poi mi guardò fisso negli occhi, e mi fece un sorriso che mi riempì il
    cuore. Poi tornò sulle sue gambe, e io andai incontro ad Alessia. Ci
    guardammo negli occhi per un istante, e poi le dissi:
    – Sono contento di averti ritrovata.
    Lei allora mi si gettò al collo, e mentre singhiozzava restammo abbracciati
    per un po’.
    Dopo questi saluti, salimmo sul pick-up e partii alla volta dell’albergo. Non
    mi andava molto di raccontare i fatti che mi avevano condotto a Boavista,
    né tantomeno l’esistenza reclusa e solitaria che avevo condotto in quei
    cinque anni. Prima o poi avrei dovuto farlo, ma non mi sembrava il
    momento migliore. E poi, preferivo parlarne privatamente con Alessia.
    Quindi durante il tragitto mi limitai a presentare l’isola a Denise e a
    descrivere quello che avrebbero potuto fare in quella settimana.
    Sicuramente avremmo passato la notte di capodanno nel deserto.
    Alla fine arrivammo in albergo. Luca ci stava aspettando: salutò Alessia con
    un abbraccio e si presentò a Denise. Accompagnammo le ragazze in camera
    con le loro valige e scendemmo al bar.
    – Allora com’è andato il primo incontro?
    – Bene. A dire la verità non ci siamo detti che poche parole, ma sono ancora
    commosso. Adesso però ho bisogno di stare un po’ da solo con lei. Appena
    scende andiamo a fare una passeggiata in spiaggia.
    – Alessia è davvero una bella persona. Mi spiace di averla sottovalutata
    quando stava con Niccolò.
    – Secondo me tu e Marco avevate sottovalutato un po’ tutti. Comunque si, è
    una persona speciale. È un peccato che le cose siano finite così. Pensa se
    fosse stato io a introdurla ai miei amici invece che il contrario. Lei non era
    alla disperazione come gli altri. Avrebbe potuto fare una vita normale,
    laurearsi, sposarsi con Niccolò. Noi saremmo stati i suoi amici.
    – Ma sai, sono discorsi un po’ oziosi, le cose sono andate come sono andate,
    e evidentemente c’è una qualche ragione per la quale dovevano andare
    proprio così. E tu ed Alessia ringraziate il cielo perché Niccolò e Matteo
    stanno peggio.
    Alessia scese le scale. Portava un abito lungo di lino bianco che le dava
    un’immagine quasi eterea.
    – Andiamo, Chicca , dissi e le porsi la mano. Lei mi sorrise, e mi porse la
    sua, e allora l’immagine del nostro incontro dell’estate passata si dissolse,
    e la vidi come la ricordavo.
    Scendemmo in spiaggia. Le nubi grigie correvano sullo sfondo dell’azzurro
    e all’orizzonte si confondevano col mare color ardesia. Il vento soffiava
    forte da ovest e ricacciava la sabbia nel cuore dell’isola.
    – Insomma è andata male a tutti e due.
    – Già , disse lei abbassando lo sguardo.
    – Scusami per l’altra volta. È stata colpa mia. Sono stato aggressivo. Ci ho
    pensato molto dopo che siete ripartiti. Forse vederti reinserita in un
    contesto normale mi faceva invidia.
    – Ti assicuro che non c’era molto da invidiare.
    – Tuo marito mi ha raccontato un po’ com’era andata tra di voi.
    – Guarda Chicco, è stata una mossa terribilmente sbagliata. Penso tu possa
    immaginare come mi sentivo a pezzi. Sai quanto bene volevo a Niccolò.
    L’idea del viaggio a Cuba era nata in un periodo in cui mi sembrava più o
    meno di aver sistemato tutto. Avevo anche accettato l’umiliazione di
    incontrare i suoi genitori. Per un’ora mi sono fatta coprire di insulti e
    recriminazioni, e l’unica cosa che sua madre voleva da me erano delle sue
    foto e dei suoi oggetti personali che mi aveva regalato. È stata una cosa
    infernale.
    – Lo immagino Chicca. Sua madre è sempre stata una stronza. Quando
    morirono i miei l’unica cosa che riuscì a dirmi fu che potevo contare su di
    lei se avevo bisogno di soldi per finire l’università.
    – Dopo aver superato questa prova credevo di aver espiato e di poter
    ripartire. Avevo anche iniziato a lavorare, avevo recuperato i rapporti coi
    miei vecchi amici della parrocchia. Non potevo tenere il lutto per tutta la
    vita. Ho cercato di dare un senso alla morte di Niccolò, evitare di sentirmi
    responsabile. Mi ha ferito che tu mi abbia attaccato su questo punto l’altra
    volta.
    – Hai ragione tu, scusami. Ma io sto peggio: non posso nemmeno
    andarmene da qualche altra parte e provare a ripartire.
    – Ma tu sei venuto qui per provare a ripartire, no? Non mi sembra nemmeno
    che le cose ti stiano andando troppo male.
    – Ma no, che dici? Come posso ripartire da qui? Che posso fare, sposare una
    nativa e mettere al mondo dei figli? La realtà è che sto su questa cazzo di
    isola deserta ad aspettare di morire. Non faccio altro che bere e aspettare.
    Cercavo la pace e forse l’ho trovata, ma adesso cosa posso fare? Come
    posso portare avanti la mia vita? Che cosa ci rappresento io qua?
    – Sai Jacopo, tu sei l’unica persona tra quelle che frequentavamo in quel
    periodo che immaginavo adulto. Ti immaginavo un uomo bello, elegante,
    distinto, con una famiglia e una vita invidiabile. Mi sembrava il tuo
    sbocco naturale.
    In quel momento, nulla era più fuori della mia portata di una vita distinta e
    rispettabile.
    – Sai che alle volte la notte mi sveglio in un lago di sudore e con le mascelle
    serrate sognando una vita normale, come quella di tutti gli altri? Un
    lavoro, le vacanze, una casa da mandare avanti. Ti ho invidiata quando ti
    ho vista con tuo marito. Sembravate una coppia normale.
    – Figurati. Forse avremmo anche potuto esserlo, ma di sicuro eravamo
    partiti col piede sbagliato. Denise mi aveva convinto a questa “battuta di
    caccia” a Cuba, come diceva lei. Poteva essere una buona occasione.
    Certo conoscere qualcuno fuori dal giro avrebbe potuto essere utile per
    ripartire anche in campo sentimentale. Ma mi son mossa male. Lui mi è
    piaciuto subito, aveva modi galanti, una faccia pulita, sembrava proprio la
    persona normale che cercavo. Ma mi era sembrato poco furbo vomitargli
    addosso tutto il mio passato. Allora ho iniziato a cambiare le carte in
    tavola e gli ho raccontato una versione molto edulcorata di quello che mi
    era successo.
    – In effetti quando vi ho visto insieme ho percepito chiaramente che lui non
    poteva sapere tutto. Sembravate troppo normali. Una coppia in cui uno ha
    sulle spalle quello che hai tu non può sembrare normale. Non sapevo
    come comportarmi.
    – Anche io ho sbagliato comunque. Sono stata sprezzante nei tuoi confronti.
    Era prevedibile che tu ti arrabbiassi. Scusami. Forse volevo solo cercare di
    mostrare a me stessa che mi ero davvero gettata tutto alle spalle e tu ormai
    eri parte del mio passato.
    – Lo pensi davvero?
    – Si, lo penso davvero, e lo penso tuttora. Non fraintendermi, sei stato il
    migliore amico che abbia mai avuto e abbiamo condiviso le nostre vite.
    Non ne avrò mai più di amici come te, questo è sicuro. Ma dobbiamo
    ricominciare entrambi, separatamente. Proviamoci. Quando tutto sarà
    passato potremo confrontarci.
    – Alessia io avrei voglia di stare con te, di averti vicina come un tempo.
    Non sai quanto ti ho pensata nella settimana che sono stato qua da solo.
    Ho ripensato a tutte le cose che facevamo insieme, a tutto quello che
    avevamo condiviso, e quasi m’è tornata voglia di ricominciare a vivere
    per poter condividere con te quello che mi sarebbe capitato.
    – Jacopo anche a me manca la nostra amicizia, ma non so se ce la potrei
    fare a ripartire e a rifarmi una vita avendoti vicino. Mi torna in mente
    tutto, a partire da Niccolò, ma non solo lui, tutto quel periodo, quello che
    avremmo potuto essere se le cose fossero andate diversamente. E il
    rapporto meraviglioso che avevo con te e con Niccolò, non so se potrò
    mai trovare qualcosa che gli assomigli anche solo vagamente. Coi vostri
    fantasmi che mi girano attorno sarà impossibile conoscere qualcuno e
    provare a ricominciare. Sei troppo importante e troppo ingombrante per
    me.
    Eravamo arrivati alla fabbrica abbandonata sulla spiaggia di Chavez. Ci
    sedemmo sulla sabbia. Una profonda tristezza mi aveva invaso. Le lacrime
    iniziavano a rigarmi le guance.
    – Sai Chicco, il ricordo della nostra amicizia non ce lo potrà mai sottrarre
    nessuno. Tutte le volte che vorremo ci incontreremo in sogno.
    Lascia cadere la testa tra le gambe. Alessia mi accarezzò i capelli, e mi
    sentii ancora più a terra.
    – Alessia io forse non avrei avuto nemmeno il coraggio di provarci da solo.
    Per questo avrei bisogno di averti accanto, per potercela fare insieme. Ma
    ti capisco. E ti ammiro, sei stata forte, più forte di me. Sono sicuro che ce
    la farai.
    – Cercherò di evitare gli errori che ho fatto con Mirko la prossima volta che
    incontrerò qualcuno. Alla fine cercare di apparire una persona normale è
    stato controproducente. E lui in fondo era una brava persona e mi amava
    genuinamente. Non se lo meritava.
    – Da quello che mi ha detto ti ha amato. Quando l’ho conosciuto era
    scontento che non facevate più niente insieme.
    – Certo, dopo un po’ non riuscivo neppure a parlargli. Poveretto, più lui si
    premurava di starmi vicino e cercare di aiutarmi, più mi faceva rabbia
    perché ormai dopo tutte le bugie che gli avevo raccontato non potevo
    scoprire le carte nonostante non ci fosse cosa al mondo che avrei
    desiderato di più. Ma era una cosa nata nel modo sbagliato e non poteva
    finire diversamente. Un colpo di fulmine, figurati! Come ho potuto
    ingannarmi fino a questo punto? Mi spiace solo di averlo fatto soffrire.
    – Perché te la sei presa tanto con me quando siamo spariti nel deserto?
    – Ma come, davvero non ci sei arrivato?
    – No, non credo.
    – Chicco io a Mirko gli ho voluto bene. In ogni caso, era il mio passaporto
    per una vita normale. Non volevo che finisse male come Niccolò.
    Il discorso si stava facendo scivoloso.
    – No, scusa, allora siamo di nuovo al punto di partenza: vuoi sottintendere
    che Niccolò ha fatto la fine che ha fatto per colpa mia?
    –Scusami. Non intendevo questo. È ancora un tasto sensibile per me,
    immagino che tu capisca.
    Lei abbassò la testa. La abbracciai.
    – Non provarci a ritirare fuori questo discorso – dissi sorridendole.
    – No, è che ho immaginato tante volte cosa sarebbe potuto succedere se
    invece che essere voi due a uscire col mio gruppo io avessi preso casa a
    Firenze e avessi chiuso subito i ponti con quel mondo.
    – Buffo, ne parlavo con Luca prima che tu scendessi. Senti Chicca, la verità
    è che in quel momento io e Niccolò avevamo bisogno della famiglia
    Imperiale, non solo di un’amica e una fidanzata. Doveva andare così, dai.
    Adesso basta. Tu che puoi, cerca di ripartire. Ce la stai facendo. Forza.
    Alessia mi abbracciò forte. Appoggiando la mia guancia alla sua, sentii la
    morbidezza e il calore della sua pelle, e mi ritornò in bocca il sapore dei
    molti altri abbracci che ci eravamo scambiati nel corso della nostra
    amicizia. E senza riuscire a rompere nel pianto, le lacrime copiosamente
    bagnavano le nostre guance.


    SE TU DOVESSI SCEGLIERE TRA L’IMPERIALE E UN
    CAPANNONE
    Antonio Velasquez era uno troppo furbo per i miei gusti. Ma l’Imperiale
    non poteva andare avanti. La formula del club consentiva di fare i fuori
    orario, ma creava un sacco di problemi perché Roberto era responsabile
    praticamente di qualsiasi cosa succedesse. La polizia veniva regolarmente,
    e spesso finiva che Roberto si prendeva un multa e il locale restava chiuso
    per un mese. Una volta la Bettina si fece letteralmente trascinare via dagli
    agenti mentre continuava a urlare nel microfono “Emozione puraaaa
    finché ti duraaaa”. E poi era uno stabilimento balneare, e si trovava nel bel
    mezzo di Tirrenia, non era posto adatto per il richiamo che aveva iniziato a
    esercitare. La gente si lamentava per il traffico e per il rumore, e anche se
    si fossero rispettate tutte le regole possibili e immaginabili era solo una
    questione di tempo prima che il sindaco revocasse la licenza.
    L’Insomnia invece era un capannone industriale alla periferia di Ponsacco.
    Tutt’altro posto: niente spiaggia, niente terrazza sul mare. Uno per fare
    l’amore doveva rifugiarsi in macchina. E poi doveva chiudere a orari
    regolari, e questo alla fine faceva in modo che persone da tanto lontano,
    che dovevano spostarsi in treno, non si vedessero. Però Antonio si era
    mosso bene, e già da un anno era riuscito a accaparrarsi Miki, Francesco
    Farfa, Joy Kiticonti e il Principe Maurice. Erano loro i più bravi, dal punto
    di vista musicale erano miglia avanti, e gli altri semplicemente seguivano.
    Tant’è che loro in effetti sono sopravvissuti e continuano a fare musica,
    mentre gli altri no.
    L’Insomnia era molto più grande, era gestito con del personale vero e
    proprio e per mandarlo avanti servivano molti soldi e molte presenze.
    Quindi si diffondeva la voce, gente nuova si presentava e la famiglia si
    allargava senza nessun controllo reale su dove si stava andando a parare.
    Ma non c’erano troppe domande da farsi: gli affari poi andavano a gonfie
    vele, e non avevo più bisogno di rivolgerci ai grossisti: Matteo aveva
    reclutato un gruppo di ragazzetti che vendevano la roba al dettaglio. In
    media si facevano almeno una decina di milioni a serata. Ma la situazione
    si avvitava su se stessa a spirale. Non poteva andare avanti a lungo.



    UN GIORNO POTRAI DIRE: SI È VERO, C’ERO ANCH’IO
    Quella notte, per la prima volta dopo molti anni, dormii serenamente e mi
    svegliai di ottimo umore e con una grande voglia di iniziare la giornata.
    Scesi in cucina alle otto e preparai la colazione per le ragazze, poi presi un
    vassoio e salii le scale per portarlo in camera. Senza svegliarle, appoggiai il
    vassoio sul tavolo e aprii le imposte. Poi mi sedetti e le guardai mentre
    aprivano gli occhi.
    Fu Denise la prima a svegliarsi:
    – Chicco sei un sogno!
    Mi sedetti sul letto, al suo fianco, e la baciai sulla fronte. Poi mi alzai e
    andai a chiamare Luca. Facemmo colazione tutti insieme, le due ragazze
    ancora sotto le coperte e noi due seduti ai piedi del letto. Non parlammo né
    di passato né di futuro, ma solo di come avremmo impegnato quella
    giornata che era cominciata in maniera così bella. Il vento che continuava a
    soffiare forte da ovest si era portato via le nuvole e aveva lascito un cielo
    azzurro intenso che avevo visto di rado.
    – Dai vestitevi che oggi vi portiamo a Santa Monica – disse Luca.
    Santa Monica è una spiaggia sul lato meridionale dell’isola, ed è ritenuta da
    tutti la più bella spiaggia di Capo Verde. Quando soffia il vento da ovest il
    mare della baia rimane uno specchio turchese perfettamente immobile rotto
    dal nero delle rocce vulcaniche, ed è uno spettacolo bellissimo. In origine si
    chiamava Praia de Curralinho, ma poi gli hanno cambiato nome perché
    sembrava l’omonima spiaggia della California. Oltre ad essere lunga più di
    venti chilometri, è anche parecchio distante dal villaggio turistico e dagli
    alberghi, che si trovano tutti nei pressi di Sal Rei, sul lato nord-ovest
    dell’isola, e non c’è neppure una vera e propria strada per arrivarci. Per
    queste ragioni è rimasta relativamente incontaminata. Anche se ultimamente
    si vocifera che nella zona verrà costruito un aeroporto internazionale e una
    serie di villaggi turistici.
    Io mi misi alla guida del pick-up, Denise si sedette accanto a me mentre
    Luca e Alessia salirono dietro. Denise estrasse dallo zaino una cassetta e la
    inserì nell’autoradio. Aprile 1993, Andrea Giuditta e Franchino. Mentre la
    musica partiva, Denise mi accarezzava la nuca in silenzio. Avevamo lasciato
    il deserto alle nostre spalle, la strada si inerpicava su per le montagne, e
    tutto era perfetto. Poteva essere un buon momento per morire.
    Arrivammo alla spiaggia e parcheggiammo il furgone sotto una palma. Luca
    e Alessia scesero di fretta e iniziarono a correre verso il mare, spogliandosi
    durante la corsa e gettando i vestiti alle loro spalle. Sembravano felici. Luca
    non l’avevo mai visto correre o affrettarsi a fare una cosa. Prendeva sempre
    tutto con una lentezza quasi disarmante, come se non gliene importasse
    niente realmente di quello che faceva.
    Io e Denise restammo ad aspettare la fine della cassetta. “Qui possiamo fare
    tutto…” furono le ultime parole di Franchino, mentre la cassa di 20Hz
    faceva pausa per prepararsi a colpire con maggior violenza. Scendemmo
    anche noi dal furgone. Il cielo aveva un colore blu intenso meraviglioso, e il
    mare lo rifletteva. Luca e Alessia nuotavano e scherzavano nella baia
    d’acqua chiarissima. Io mi lasciai cadere sulla sabbia. Denise si sedette
    accanto a me. Senza parlare, con lo sguardo rivolto al mare, iniziò ad
    accarezzarmi i capelli. Mi sentivo bene. Per la prima volta dopo tanti anni,
    in pace con me stesso. Ero tornato al punto in cui tutto si era interrotto.
    Alessia scherzava con Luca e lo abbracciava, come prima aveva fatto con
    Niccolò. Denise si distese accanto a me. Senza parlare, mentre io
    continuavo a guardare verso il cielo, continuava ad accarezzarmi e a
    guardarmi. Mi desiderava, come mi aveva desiderato anni prima. Come se
    fossi una cosa preziosa per lei. Era un buon momento per morire.


    INSOMNIA, IL PAESE DEI BALOCCHI
    E in effetti le cose iniziavano a farsi ben più complicate. L’Insomnia
    richiamava un sacco di persone, giravano un sacco di soldi e la gente
    iniziava a guardarsi le spalle. Il sabato sera c’era fissa una pattuglia dei
    carabinieri all’uscita della superstrada, ed era regolare incappare nei
    controlli. Certo, bastava farsi furbi, portare la roba in mattinata e
    nasconderla da qualche parte nel parcheggio, ad esempio all’interno dei
    tubi di metallo che reggevano le catene. E noi tre, in ogni caso, avevamo
    l’aspetto di persone perbene e non destavamo grossi sospetti. E poi i
    criminali di professione avevano iniziato a fiutare l’affare e si erano inseriti
    nei giri di produzione e smercio delle cale. Era arrivato il momento della
    cautela.
    Franchino era un parrucchiere di Campo nell’Elba molto eccentrico che
    prendeva il microfono e raccontava le favole che gli passavano per la testa;
    era diventato un vocalist di professione, ed emetteva regolare fattura. Noi
    eravamo tre amici, uno dei quali studente di chimica, che preparavano un
    po’ di MDMA per gli amici, eravamo diventati rifornitori di una rete di
    spacciatori.
    La dimensione iniziale, il fare qualcosa per la famiglia, era completamente
    perduta. Anzi, era la famiglia stessa ad essersi disgregata.
    A febbraio del 1996, arrestarono Diego, il cameriere della rosticceria di
    piazza Sant’Ambrogio, che lavorava per noi. Lo fermarono all’Osmannoro
    mentre andava al Torquemada con un carico di un centinaio di paste.
    Diego era un bravo ragazzo ma non era affidabile, poteva combinare casini
    in qualsiasi momento. Il suo arresto ci stava tutto. Diego fu coraggioso,
    comunque, e non fece i nostri nomi. La polizia trovò nel suo cellulare il
    numero di Niccolò, che teneva i contatti con lui, e lo chiamarono per un
    interrogatorio. Anche se dubitavo di lui, Niccolò fu bravissimo a sostenere
    che Diego era solo un conoscente, e che lui e Alessia frequentavano
    abitualmente la sua rosticceria, il che in effetti era vero. La cosa morì li,
    Diego si prese due anni con la condizionale e si chiamò fuori, ma era un
    campanello d’allarme.
    Alla fine della stagione 1995/96, per me era arrivato il momento di
    smettere. Alla serata di chiusura del Torquemada avevo beccato una
    ragazzina di quindici anni, Giulia. Fasano suonava “The nightfly”, e
    durante la pausa della cassa ci eravamo abbracciati, come spesso capitava
    e come anche tutti gli altri facevano. Era un momento molto suggestivo, la
    musica si fermava e tutta la pista si scioglieva in un immenso abbraccio.
    Non so come ma io quella volta ero scoppiato a piangere come una vite
    tagliata. Lei fece quello che avrebbe fatto chiunque al suo posto, mi portò
    fuori, mi fece sedere sul dondolo e provò a consolarmi. A un certo punto
    disse:
    – Cosa c’è da piangere, la serata è meravigliosa, sei uno dei ragazzi più
    desiderati del Torquemada, hai tutto!
    Alla fine era anche una frase piuttosto neutrale. Ma mi parve che avesse
    tolto il velo che stava davanti allo specchio e mi avesse mostrato quello che
    veramente ero diventato. Non ero più un ragazzo solitario e scartato che
    aveva trovato una nuova famiglia di persone come lui. Ero uno dei ragazzi
    più desiderati, ero un figo, tutti mi invidiavano, non mi mancava nulla. Non
    ci vidi più dalla rabbia, urlai:
    – Ma che cazzo vuoi, cosa ne sai di me? – e le mollai uno schiaffo.
    La roba che avevo preso quella sera era sempre la nostra, ma era la prima
    volta che mi prendeva male in questa maniera. Non avevo mai alzato le
    mani su una ragazza. Per me era arrivato il momento di chiudere.
    Ma si sa, l’avidità è una spirale che si autoalimenta, e si cominciava anche
    a pensare a cosa avremmo fatto senza tutti i soldi di cui potevamo disporre.
    Niente più cene, vestiti, weekend a Londra e a Berlino. Matteo, che aveva
    lasciato il cuore a Tirrenia, diceva che non se la sentiva di lasciare a piedi
    tutti i ragazzi. Niccolò, che evidentemente aveva ricevuto in eredità dalla
    convocazione in commissariato una sorta di delirio di onnipotenza,
    continuava a dire che non c’era nulla da temere, e aveva anche smesso di
    preoccuparsi di non dare nell’occhio coi soldi. E in questo Alessia, che
    iniziava a ricevere da lui regali di notevole importanza, gli dava man forte.
    Io avevo provato a parlarle, ma lei era completamente catturata dallo stile
    di vita che avevano intrapreso: cene, viaggi, regali. E temeva che tornare a
    una vita normale avrebbe finito per rovinare anche la sua storia con
    Niccolò. Alla fine poteva anche avere ragione: sono sempre stato dell’idea
    che lo star bene con una persona dipende in larga parte dal tipo di cose che
    si condividono e si fanno insieme. Passando ad altro c’è sempre il rischio
    di ritrovarsi accanto uno sconosciuto.



    NOVANTAQUATTRO… È INIZIATO BENINO, EH?
    Quei giorni passarono rapidamente. La sera di capodanno andammo nel
    deserto a fare una grigliata di pesce. Davanti al fuoco Luca e Alessia
    parlavano, si raccontavano, e saltarono fuori delle cose di Luca e della sua
    storia con Camilla di cui neppure io avevo mai saputo.
    Io e Denise invece rimanevamo in silenzio, ci tenevamo per mano e ci
    sorridevamo. Non servivano molte parole. Non c’era molto da dire. C’erano
    soltanto delle sensazioni da assaporare di nuovo, da gustare e centellinare
    per poter fissarle bene prima che di nuovo se ne sparissero per altri cinque
    anni o forse più. Non avevamo orologi, e ci rendemmo conto che la
    mezzanotte era arrivata vedendo all’orizzonte i fuochi artificiali del
    villaggio turistico. Allora Luca stappò una bottiglia di spumante, ne bevve
    uno sorso direttamente dalla bottiglia e la passò ad Alessia. Alessia bevve, si
    alzò e passò la bottiglia a Denise. Poi prese Luca per mano, e si
    incamminarono tra le dune. Io rimasi seduto, Denise accanto a me.
    – Sai cosa c’è di buffo? Quando uno è con un’altra persona di solito si sente
    obbligato a intrattenere una conversazione, a dire frasi di circostanza. Con
    te invece anche se rimango in silenzio mi sento perfettamente a mio agio.
    Denise annuì, e mi accarezzò una guancia.
    – Chicco cosa vuoi che ci sia rimasto da dire? Alessia, lei è una che ha
    bisogno di parlare. E a me fa anche piacere stare ad ascoltarla e cercare,
    per quello che posso di aiutarla. Ma io la voglia di parlare l’ho persa da un
    pezzo.
    – Anch’io. Certe volte quando vengo in questo deserto vorrei farmi
    inghiottire dalla sabbia. Senti com’è fredda.
    Le presi l’avambraccio e lo ricoprii di sabbia.
    – Senti il gelo che ti penetra nelle ossa. Sembra di perdere completamente la
    sensibilità dell’arto.
    Denise, con l’altra mano, prese il mio altro braccio e lo infilò sotto la
    sabbia.
    – Vorrei restare così per sempre – disse, quasi affondando le sue unghie
    nella carne del mio avambraccio.
    – Non credo sia possibile, sai. Quello che c’è di speciale in questi momenti
    è che capitano così di rado. Altrimenti non sarebbero così sorprendenti.
    Denise si avvicinò e chiudendo gli occhi mi dette un bacio sulle labbra. Io
    restituii il bacio accarezzandole la nuca. I fuochi di capodanno frattanto
    erano finiti, e l’isola sprofondava di nuovo nella notte.
    Alessia e Denise ripartirono il 3 gennaio, con la promessa di tornare a
    trovarci in estate. Quella parentesi di vita mi lasciò uno strano sapore in
    bocca. Da un lato, erano stati momenti molto belli, che mi avevano non solo
    fatto riconciliare col passato, ma mi avevano anche restituito sensazioni che
    non provavo più da anni. D’altra parte, era facile rendersi conto che tutto si
    era giocato sulla falsariga dell’incontro dopo anni di lontananza, e che alle
    prossime visite le cose avrebbero potuto andare diversamente. Dopotutto,
    avevamo parlato unicamente di passato, di cose fatte e dette, di persone che
    ci avevano lasciato qualcosa. Il presente era apparso unicamente come
    conseguenza di quello che era stato, e del futuro non se n’era proprio fatta
    menzione.
    Il futuro del resto era del tutto fuori dai miei orizzonti. Come avevo detto ad
    Alessia, non avevo nessun tipo di prospettiva, se non quella di condurre una
    vita quantomeno non sgradevole o disagiata in attesa di morire. Non mi
    aspettavo nulla dal futuro: la mia esistenza avrebbe potuto condensarsi nei
    tre anni dell’Imperiale, anni in cui avevo provato tutto, l’amore, l’odio, la
    forza, la comunione, la famiglia. Non restava altro, in cosa avrei potuto
    sperare? Avevo già avuto tutto. Il resto della mia vita avrebbe
    semplicemente fatto massa.
    Con Luca parlammo a lungo e molte volte di Alessia. Avevano fatto l’amore
    per capodanno, e si scrivevano lunghe lettere. Luca sarebbe andato a
    trovarla in Italia in primavera. Ero contento che Luca avesse capito che
    persona speciale lei fosse. Ero contento che Luca riempisse il vuoto che la
    morte di Niccolò aveva portato nel cuore di Alessia. Ero contento che lei
    portasse a Luca un po’ di vita, che lo facesse sentire importante come mai
    nessuno l’aveva fatto sentire. Luca era una delle persone più sole che avessi
    mai conosciuto. Per certi versi molto peggio di me e Niccolò. Ci sguazzava,
    nella sua solitudine. Si compiaceva di essere irrilevante per il resto del
    mondo. Godeva nel dire che quando aveva deciso di trasferirsi a Boavista, a
    seguito di una storia finita male, neppure i suoi genitori avessero protestato
    o cercato di farlo desistere. Luca ci si era sempre trovato a suo agio, nella
    sua malinconia. Noi ci avevamo provato ad aiutarlo, quando eravamo
    ancora in condizioni, ma senza successo. Forse bastava semplicemente una
    persona che lo facesse sentire importante.
    Ad ogni modo, col nuovo anno, Luca mi sembrava notevolmente cambiato,
    in positivo, e le cose per lui sarebbero probabilmente andate a migliorare.
    Diverse volte Luca mi chiese di Denise, di cosa avevo intenzione di fare con
    lei, forse con l’idea, un giorno, di invitare entrambe le ragazze a trasferirsi a
    Boavista. Io non avevo intenzione di fare proprio nulla: rivedere Denise,
    sentirmi di nuovo desiderato da lei, era stato molto bello, e mi aveva
    richiamato alla mente bellissime sensazioni dal passato, ma semplicemente
    non c’era futuro. La nostra storia era legata a doppio filo all’esperienza
    dell’MDMA e al di là della sostanza chimica sarebbe rimasto ben poco: una
    certa dose di attrazione fisica e un po’ di nostalgia per i momenti passati
    insieme. Anzi, passare troppo tempo insieme avrebbe potuto corrompere e
    rovinare tutto il bel ricordo di quei giorni.
    Io, comunque, continuavo la vita di sempre, se non altro soddisfatto
    nell’essermi riconciliato con Alessia e, in una certa misura, col mio passato.
    Certo, non vedevo né tantomeno avevo alcuna via d’uscita, ma per lo meno
    potevo dire di aver sistemato tutte le cose, e di essere pronto per partire.


    VIVERE PER VIVERE
    Era un lunedì quando mi squillò il telefono alle cinque di mattina. Ero
    rimasto a dormire a Calenzano a casa di Martina, una tipa che avevo
    conosciuto quel sabato al Deskò. Era stata una buona domenica, ci
    eravamo fatti un cartone, avevamo fatto l’amore e ci eravamo coccolati un
    sacco. Quando vidi sul display il nome di Alessia, immaginai che avesse
    litigato con Niccolò. Non capitava di frequente, ma le rare volte si dicevano
    delle cattiverie notevoli, e finiva che entrambi avevano bisogno del mio
    conforto. Ma dall’altro capo del telefono sentivo solo voci concitate e
    rumori di oggetti che cadevano. Poi Alessia che piangeva disperata e
    chiamava Niccolò. Mi sono sentito gelare. La prima cosa che ho fatto è
    avvertire Matteo. Ai primi tempi della nostra attività Niccolò aveva
    escogitato un sistema di codici d’emergenza. “Le scatole sono pronte per il
    trasloco” era il segnale per trovarsi alla cassetta di sicurezza a prelevare il
    denaro. Poi Niccolò, per scrupolo. Nessuna risposta. Doveva essere con
    Alessia, dovevano averlo preso.
    Mi infilai i vestiti, detti un ultimo bacio a Martina che ancora dormiva e
    partii in moto verso piazza Dalmazia. Matteo nell’attesa si era fermato in
    pasticceria e aveva preso due cornetti. Sembrava tranquillo, e nemmeno
    sapere della telefonata interrotta di Alessia sembrò colpirlo più di tanto. Io
    invece ero teso come una corda di violino, i nodi erano venuti al pettine e
    sentivo che era arrivato il momento di pagare il conto.
    Riempimmo gli zaini con le mazzette di soldi che c’erano in cassetta. Visti
    così non sembravano neanche tanti soldi. Il registro diceva che c’erano
    trecentoottantacinque milioni. Non perdemmo tempo a contarli e ci
    incamminammo di buon passo verso la stazione di Rifredi. Una mattina
    d’estate, due ragazzi con gli zaini in spalla: potevamo essere due studenti
    che andavano al mare. E invece non eravamo studenti e non andavamo al
    mare, e anzi non era chiaro dove saremmo andati a finire e cosa avremmo
    fatto del contenuto degli zainetti.
    Arrivati alla stazione, venne il momento di separarci, e fu allora che capii
    che da quel momento in poi avrei dovuto iniziare a fare i conti con la
    solitudine e a camminare sulle mie gambe. Tutta la sicurezza che avevo
    costruito i quegli anni, che mi aveva fatto reagire con prontezza a quella
    situazione di emergenza, si sciolse come neve al sole, e mi sentii indifeso
    come un bambino. Matteo mi abbracciò con forza e mi sorrise.
    – Ci rivedremo Jacopo, sono sicuro. Non dimenticartelo, ti proteggerò
    sempre.
    Poi salì sul treno per Viareggio. A Genova avevamo degli amici che
    avrebbero potuto aiutarlo, tenerlo nascosto per un po’ e poi cercare di
    fargli passare la frontiera. Il treno successivo portava a Piombino. Anche lì
    avevamo degli amici che avrebbero potuto aiutarmi.
    Quando arrivai andai subito al porto turistico, dove Tommaso lavorava
    come perito nautico nell’agenzia del padre. Tommaso era un bravo
    ragazzo, gli vendevamo roba che poi lui spacciava agli amici più fidati e
    non aveva mai creato problemi. Quando capitava, aveva anche aiutato
    nell’organizzare il “The West”. Di lui mi potevo fidare.
    Il “The West” era un fuori orario organizzato da un ragazzo che si
    chiamava Raulo Giovannoni. Aveva iniziato con cadenza irregolare nel
    1994, e nel 1995 capitava circa una volta al mese, il più delle volte al
    centro fiere di Venturina. Poi il 16 giugno del 1996 un ragazzo di 18 anni
    sfortunatamente morì per un collasso. Aveva preso un sacco di roba,
    mischiata con chissà cosa, ed era finito disidratato. Anche quello fu un
    segnale che le cose stavano cambiando, anche per il “The West”, che venne
    ribattezzato “Riserva Indiana”: Raulo iniziò a organizzarlo in posti più
    remoti, a contatto con la natura, quasi come se volessimo ritirarci ed essere
    lasciati in pace. Una volta addirittura in un pezzo di bosco nelle montagne
    del Casentino. Molto suggestivo, comunque.
    Tommaso, essendo figlio di un conosciuto e rispettato agente nautico,
    funzionava da tramite col comune e le altre autorità quando il fuori orario
    ancora si teneva a Venturina. Aveva notevoli qualità diplomatiche, sapeva
    gestire i rapporti con le persone ed era anche bravo a mentire. Di lui mi
    potevo fidare.
    Quando entrai nel suo ufficio spalancò gli occhi:
    – Jacopo che cazzo ci fai qua a quest’ora?
    – Ho bisogno del tuo aiuto.
    – Che t’è successo, sei pallido come un cencio!
    – Andiamo di là per favore.
    Ci spostammo nell’ufficio sul retro. Ci sedemmo, aprii lo zaino e rovesciai
    parte del contenuto sulla scrivania. Tommaso strabuzzò gli occhi.
    – Ma sei scemo? Che cazzo avete combinato?
    – Non lo so esattamente, ma devono aver preso Niccolò. Io e Matteo
    abbiamo preso i soldi che ci erano rimasti e siamo scappati via. Adesso
    non so dove andare, mi serve il tuo aiuto.
    – Non so… posso nasconderti per qualche giorno in campagna dai miei…
    – E poi cosa faccio? Verranno a cercarmi… No, devo andarmene… Se
    prendessi un traghetto per la Corsica?
    – Ho un’idea: hai qualcuno da cui puoi andare in qualche posto che si
    raggiunge via mare? Non so, tipo a Ibiza…
    – Ho un amico che si è trasferito a Capo Verde.
    – E dove sarebbe?
    – Ma che ne so, sono delle isole da qualche parte in Africa…
    Antonio prese un atlante.
    – Eccole qua. A ovest del Senegal. Saranno un quattromila chilometri da
    qua, un po’ lontano, ma in una ventina di giorni ce la puoi fare. Senti la
    mia idea. Io ti vendo una barca di quelle che di solito noleggiamo. Però
    non te la vendo sul serio, faccio finta di noleggiartela, diciamo per un
    mese, poi tu ovviamente non me la riporti. A mio padre dico che l’hai
    presa per arrivare a fare un giro alle Eolie. Dopo un mese io denuncio il
    furto, incassiamo i soldi dell’assicurazione e siamo tutti contenti. Non
    credo che verranno mai a ricercarti a Capo Verde. Per noleggiartela ho
    bisogno di un documento falso, ce l’hai?
    – Certo che ce l’ho. Ma questa di scappare in barca a vela mi sembra una
    stronzata. Come faccio con la guardia costiera? Come faccio ad
    attraccare?
    – La costiera non è un problema, fino alle Canarie sono tutte rotte molto
    battute di questa stagione, non dovresti dare nell’occhio. Una volta
    l’estate scorsa ci ho portato un carico di roba a Ibiza così.
    – Roba nostra?
    – E certo, e di chi sennò? Te l’ho sempre detto, la roba vostra l’ho sempre
    considerata la migliore.
    Sorrisi. Bello avere degli amici.
    – Fai la costa nord della Corsica, poi le Baleari e di lì punti su Gibilterra.
    Poi scendi verso le Canarie e poi punti a sud. Nell’ultimo tratto non
    dovresti trovare nessuno.
    – E dove attracco? Come faccio a rifornirmi?
    – Non lo fai, ti porti tutto quello che ti serve da qua. La notte getti l’ancora
    in qualche baia dove ci sono anche altre barche. Limiti al minimo l’uso
    del motore e della corrente elettrica. E al limite se proprio ti serve
    qualcosa puoi chiedere a qualche altro navigatore.
    – Non so, spero che tutto vada bene ma mi sembra impossibile. Tanto
    comunque non ho molte alternative. Non posso certo restare qui. Senti
    Antonio cosa ti do per tutto questo?
    – Non lo so, così mi imbarazzi... diciamo il prezzo del noleggio e un
    regalino per il rischio che corro con questa cosa?
    – Certo. Ti vanno cinquanta milioni? Il resto mi dovrebbe bastare per stare
    a Capo Verde. Che barca è?
    – Grand Soleil 343.
    – Cazzo, pure una barca da commendatore!
    Antonio si alzò e sorrise.
    – Mi vanno sì. Ti faccio preparare la barca e ti accompagno alla Coop a
    fare la spesa, ok?
    – Grazie Antonio. Grazie.
    Mi alzai anch’io e lo abbracciai. Bello avere degli amici.
    Al supermercato comprammo una cinquantina di bottiglie d’acqua, dieci
    chili di spaghetti, tonno in scatola, salsa di pomodoro, un bel pezzo di
    parmigiano e un po’ di abiti da portarmi dietro. Poi passammo in farmacia
    a prendere un bel po’ di vitamine. Non si sa mai, a non poter mangiare roba
    fresca.
    Scrissi una lettera a Luca in cui preannunciavo il mio arrivo, e chiesi ad
    Antonio il favore di spedirla il prima possibile, magari non da Piombino.
    Poi Antonio mi aiutò a caricare la barca, mi fece vedere dove stavano le
    cose e infine mi salpò gli ormeggi.
    Fu mentre lasciavo il porto e aprivo le vele che mi voltai indietro. Antonio
    era sul molo e mi guardava. Fu allora che mi resi conto di cosa stavo
    facendo. Stavo scappando, e non mi ero nemmeno chiesto se era quello che
    volevo. Come un bambino che ha combinato un guaio e cerca di
    nasconderlo ai genitori. Avrei lasciato per sempre il mio paese, le persone
    che mi volevano bene e che forse avrebbero avuto bisogno di me. Codardo.


    THE WEST IS THE BEST
    Una cosa che mi era rimasta da sistemare c’era, e si presentò a Capo Verde
    la settimana dopo Pasqua. Chiamarono l’albergo dalla dogana
    dell’aeroporto di Sal perché era sbarcato un tipo senza il visto che diceva di
    aver prenotato una camera da noi. Il tipo, ovviamente, era Mirko, il quale si
    era guardato bene dal prenotare la camera e avvisarci del suo arrivo.
    Per telefono confermai la sua prenotazione, e mi scusai con la polizia per
    aver dimenticato di trasmettere il suo nominativo. Poi me lo feci passare e
    gli suggerii di allungare una banconota da venti euro al funzionario della
    dogana, per il disturbo. Lo imbarcarono sul primo volo per Boavista, e mi
    feci io carico di andare a prelevarlo in aeroporto. Poveretto, pensavo mentre
    guidavo il furgone attraverso le palme della strada vecchia, lui non
    c’entrava niente ed è rimasto fregato. Si è solo innamorato della persona
    sbagliata. Una brava persona con la vita rovinata, riflettevo, e mi sentivo
    quasi in dovere di sistemare anche lui.
    Mirko scese dall’aereo e incedendo sulla pista con aria sicura si guardava
    attorno. Portava un completo di lino color panna e una camicia celeste. Tra
    le mani stringeva una borsa di cuoio. Pareva un agente dei servizi segreti in
    missione in un paese tropicale. Appena mi vide mi si fece avanti con passo
    deciso, mi strinse la mano con vigore e mi abbracciò calorosamente. Io non
    sono mai stato abituato a queste manifestazioni di affetto, almeno non
    quando ero pulito, e reagii in maniera goffa. Forse lui si accorse di aver
    esagerato, e cercò di correggere il tiro con una prima frase di circostanza:
    – Come andiamo, vecchio mio?
    Vecchio mio, pensavo? D’accordo, non lo conoscevo abbastanza, ma mi
    pareva che tutta questa socialità fosse artificiale e affettata. Durante il
    tragitto verso l’albergo non tacque un minuto. Ma non parlava della sua
    situazione e di quello che gli era successo, quello avrei potuto capirlo al
    limite. Frasi di circostanza sull’isola e sulla vacanza che lo aspettava.
    Questo pover’uomo dev’essere alla disperazione per comportarsi così.
    Evidentemente eravamo la sua ultima speranza. Alla fine trovai la forza di
    interromperlo e gli chiesi quanto aveva in mente di trattenersi.
    – Non lo so, il volo di ritorno l’ho fissato tra due settimane, ma il biglietto è
    aperto.
    Ecco, appunto.
    Vista la situazione e l’incertezza sulla sua permanenza, lo sistemai in una
    stanza al pianterreno che usiamo come camera di emergenza nel caso di
    errori nelle prenotazioni o partenze ritardate. Mentre Mirko disfaceva i
    bagagli, raggiunsi Luca in spiaggia e gli spiegai la situazione. Lui non
    sembrava troppo preoccupato della cosa:
    – Al limite ci darà una mano in albergo…
    – E quando Alessia verrà a trovarti?
    – Beh cavoli suoi, ormai sono separati, mica è più suo marito.
    Luca era sorprendentemente lineare nel pensiero, alle volte ragionava come
    se le persone non avessero emozioni. D’accordo, da un punto di vista
    puramente razionale poteva averci anche ragione, ma come poteva non
    vedere che la situazione sarebbe stata tesa? Meglio così comunque, potevo
    almeno risparmiarmi il senso di colpa per aver attirato questo ospite
    inatteso.
    La situazione peraltro era davvero disperata, molto peggio di come la
    immaginavo. A vederlo, Mirko sembrava una persona normale,
    moderatamente sicuro di sé e con la testa sulle spalle. In realtà era molto più
    fragile di quanto pensassi, e, quel che è peggio, si incolpava di tutto quello
    che era successo. Probabilmente perché la loro storia era nata in questa
    maniera, con lui che la proteggeva e si curava di lei, non riusciva a spiegarsi
    e ad accettare che c’erano fantasmi da cui lui non avrebbe potuto
    proteggerla nemmeno se ne avesse avuta l’occasione.
    Alessia per lui era tutto, curarsi di lei era la sua fonte di vita. Adesso capivo
    come doveva sentirsi male del fatto che lei non condividesse con lui i suoi
    problemi, che non le avesse raccontato la verità sul suo passato e su
    Niccolò. Come doveva averlo ferito il fatto che lei non avesse accettato le
    sue cure, e avesse rinunciato alle sue attenzioni per tornare da sola.
    Poveretto, pensavo, non riesco a immaginare forma di rifiuto peggiore da
    parte della persona che si ama.
    Dopo la separazione, la sua vita era crollata, aveva smesso di lavorare e
    passava le giornate trascinandosi tra il letto e il divano. Quello che era
    venuto a fare da noi era chiaro: voleva provare a ripartire. L’avevo visto
    chiaramente la prima volta che l’avevo incontrato che ci invidiava,
    invidiava la nostra vita che doveva apparirgli libera e avventurosa.
    Avrei voluto spiegarglielo col cuore in mano che non c’era nulla da
    invidiare, che io ero semplicemente scappato dalla polizia e Luca dai suoi
    genitori, e che, chi più chi meno, eravamo semplicemente qui ad aspettare
    di morire. Ma in fondo non mi sembrava giusto, perché lui era venuto a noi
    con la speranza di ripartire, e di negargli anche questa speranza non me la
    sentivo. Ma da noi non poteva rimanere, Alessia sarebbe tornata e la
    situazione era potenzialmente esplosiva. Alessia aveva trovato in Luca
    quello che non aveva voluto da Mirko, e alla fine era stata solo una
    questione di tempi e di fortuna. Luca si meritava Alessia, e sapevo che
    prima o poi lei si sarebbe trasferita a Boavista. Se Mirko fosse rimasto a
    lavorare in albergo o anche da qualche altra parte nell’isola, non avrebbe
    mai potuto sopportare una situazione del genere. E anche se avesse fatto
    mostra di farlo non avrebbe avuto alcuna possibilità di ripartire e rifarsi una
    vita.
    Dopo tre giorni che era arrivato ed era rimasto appiccicato a me e Luca,
    come se si aspettasse che accanto a noi qualcosa sarebbe successo, decisi
    che l’avrei portato via. Ne parlai con Luca, e convenimmo che non poteva
    restare da noi. Rimandarlo in Italia sarebbe stata un’inutile crudeltà, però.
    Mi sarei occupato io di lui. Anche se quello che avevo in mente voleva dire
    stare via per almeno un mese.
    – Tu sei fuori di testa! – mi disse Luca quando gli spiegai la mia idea.
    Credo di no. Secondo me sarebbe stato proprio quello che gli ci voleva. E
    poi al limite sarebbe sempre stato in tempo a tornare in Italia.
    Il giorno dopo averne parlato con Luca, dissi a Mirko che l’avrei portato a
    fare un giro delle isole in barca, e di portarsi tutte le sue cose che saremmo
    stati via diversi giorni. Mirko sembrava elettrizzato all’idea di quel viaggio,
    e mi chiese anche di insegnargli a portare la barca. La mattina dopo
    eravamo pronti per partire.
    Una volta lasciato il porto, iniziai a spiegare a Mirko le procedure per
    portare la barca, che senz’altro avrebbe fatto comodo alternarsi. Avevamo
    quasi duemila chilometri di navigazione davanti a noi. Brasile. L’avrei
    portato lì, dove ero sicuro che una persona che per me era stata importante
    avrebbe cambiato radicalmente la sua vita.



    ESCI DAL TUNNEL, ENTRA NEL VORTICE
    Niccolò era rimasto in coma per quarantun giorni prima di morire. Il
    proiettile gli aveva forato la carotide.
    Io lo sapevo che li avevamo alle calcagna e volevano metterci fuori dal
    gioco. Ma non cercavano Niccolò, cercavano me. Se ci penso erano un po’
    di settimane che vedevo troppa gente passare nella strada prospiciente la
    colonica. Dovevano essersi appostati alla fonte, aspettando che rientrassi.
    Invece io non rientrai quella notte, rientrarono Niccolò e Alessia. Avevano
    litigato tutta la sera, poi avevano fatto pace e andavano alla colonica per
    fare l’amore.
    Successe dopo che la macchina era stata parcheggiata, mentre Niccolò
    armeggiava al portone per aprire tutte le serrature mentre Alessia
    raccoglieva le sue cose dal bagagliaio dell’auto. Due tipi sbucarono da
    dietro il pozzo, un colpo a bruciapelo e poi giù di corsa per il campo di
    ulivi. Quando la polizia arrivò trovò tutto quello che era stata la nostra vita
    in quegli anni.



    IL PICCOLO BRUTTO ANATROCCOLO DIVENTÒ BIANCO E
    SPLENDENTE COME UN CIGNO
    Puntammo verso Fogo, e quando il vulcano iniziò ad apparire all'orizzonte,
    Mirko prese a emozionarsi e a chiedermi dell'isola. Fu a quel punto che
    decisi di dirgli tutta la verità, incluso il posto dove eravamo veramente
    diretti.
    – Mirko perché hai deciso di venire da noi?
    – Ma come, non te lo immagini? Mi sembra il posto migliore per ripartire.
    Anche voi siete venuti qui per questo, no? Io voglio una vita diversa da
    quella che ho avuto finora. Sono sempre stato inquadrato, regolare, prima
    concentrato sullo studio, poi sul lavoro e la famiglia. Io voglio una vita
    interessante, avventurosa, libera!
    – Mirko la mia vita è tutto fuorché libera. Io sono scappato in questo posto
    per non andare in galera. Sei anni, produzione e spaccio di stupefacenti.
    – Non l’avevo immaginato...
    – Sono bravo, eh, a fingere? Ormai sono allenato. Tutti gli italiani che
    vengono al nostro albergo ce lo chiedono come mai siamo venuti a vivere
    a Capo Verde. Ci ho fatto l’abitudine a raccontare balle. Questa della vita
    libera è la più grossa di tutte. Non posso nemmeno muovermi
    tranquillamente, altro che libera!
    – Scusa, non sapevo... Mi dispiace.
    – Non preoccuparti. Vedi Mirko, ci sono tante cose che devo dirti. Ma la
    prima è che non stiamo andando a fare un giro delle isole. Ti porto in
    Brasile. Lì c’è un mio amico, si occuperà lui di te, ti darà una vita
    avventurosa se lo vorrai, o una semplice vacanza se poi deciderai di
    tornare al tuo mondo. Sono convinto che in ogni caso ti darà tanto. Lui è
    stato una persona tanto importante per me, quasi un padre nella vita che
    ho attraversato prima di venire su queste isole. Non puoi restare da noi,
    Mirko. Luca e Alessia si stanno innamorando, è probabile che se le cose
    vanno bene lei verrà a vivere a Boavista. Non possiamo stargli appresso,
    dobbiamo lasciargli spazio, se la meritano entrambi un'altra chance.
    Mirko sbarrò gli occhi e non rispose. Io continuai:
    – Lo so, è difficile da accettare, ma dovete entrambi rifarvi una vita. Ma non
    nel solito posto, sarebbe impossibile, di questo devi rendertene conto.
    – Sicché mi volete scaricare?
    – No, voglio che Luca e Alessia possano stare bene insieme e costruire
    qualcosa. Voglio bene a entrambi, e si meritano questa possibilità. Me ne
    andrò anch'io comunque, non ha senso che rimanga a Boavista una volta
    che lei si sarà trasferita.
    – E tu resterai in Brasile con me?
    – No, la persona da cui ti porto è legata al mio passato, non avrebbe alcun
    senso... Vedi Mirko, ho la sensazione che la vita mi stia inseguendo, non
    posso continuare a scappare.
    Il viaggio fu relativamente tranquillo. Dopo che Mirko ebbe imparato i
    rudimenti della navigazione, portammo la barca alternandoci, e bastarono
    dieci giorni per arrivare in vista della costa. Parlammo molto di Alessia
    durante il viaggio, e per la prima volta parlai con qualcuno di quanto le
    volevo bene e di quanto lei fosse preziosa per me. La prospettiva di non
    poterla avere accanto mi gettava nell’angoscia, ma questo era quello di cui
    lei aveva bisogno, me l’aveva detto chiaramente, e per lei io me ne sarei
    andato. Mirko in effetti non si era innamorato di lei, ma dell’immagine che
    lei cercava di proiettare. Ma sono convinto che se l'avesse davvero
    conosciuta se ne sarebbe innamorato ancora di più.
    A quanto mi aveva detto Denise, Franchino si era ritirato dalla scena un
    anno fa, a seguito di un infarto, e si era trasferito da sua figlia in Brasile,
    dove aveva aperto una piccola attività alberghiera in un paesino vicino a
    Fortaleza. Non fu difficile trovarlo. Era a pescare sul molo, vestito con una
    camicia Hawaiana e un enorme cappello di paglia.
    – Francesco – dissi con la voce rotta dall’emozione.
    Lui voltò la testa. Per un attimo mi squadrò, non era facile riconoscermi
    dopo cinque anni, abbronzato dal sole dei tropici e con la barba di una
    settimana. Poi un sorriso si dipinse sul suo volto, si alzò in piedi e venne
    verso di me per abbracciarmi:
    – Jacopo non immaginavo che tu saresti più tornato a trovarmi!
    – Credevi che mi fossi dimenticato di te?
    – Che fai qua?
    – Ti ho portato un mio amico che ha bisogno del tuo consiglio. Come stai?
    Ho saputo che non sei stato bene.
    – Ho dovuto rallentare e son venuto qui a riposare, vicino a mia figlia. Ora è
    diventata grande, abbiamo aperto questo albergo, e si prende cura di me.
    Anche a Franchino la famiglia Imperiale non serviva più, aveva ritrovato la
    sua, di famiglia.
    – Lui è Mirko. Volevo che ti conoscesse. Vorrei che parlassi un po’ con lui,
    credo che abbia bisogno del tuo aiuto.
    – Ma come avete fatto a trovarmi? Come siete arrivati?
    – Mi ha detto Denise che eri qua. Io vivevo a Capo Verde. Siamo venuti in
    barca a vela.
    Franchino rise.
    – Proprio come ai vecchi tempi… come quei due ragazzi che venivano
    all’Imperiale in motorino dall’isola d’Elba, te li ricordi?
    – Certo che me li ricordo, Marcone e Marchino!
    – Dai venite da noi, vi faccio preparare un caffè da mia figlia.
    La figlia di Franchino si chiamava Luna, ed era cresciuta con la madre in
    Brasile. Negli anni dell’Imperiale un paio di volte era venuta in Italia a
    trovare il padre, e lui ovviamente se l’era portata in consolle e l’aveva
    presentata a tutta la famiglia. Ai tempi era una bambinetta di dieci anni con
    due trecce nerissime, adesso era diventata una bellissima ragazza, di aspetto
    tipicamente brasiliano. Mirko ne rimase piacevolmente colpito, si capiva.
    L’albergo di Franchino si chiamava “Casinhas das Estrelas”, e si
    componeva di sei miniappartamenti sulla spiaggia, immersi nella
    vegetazione. Un posto che trasmetteva quiete. Ci sedemmo a un tavolino
    nella veranda della casa principale, all’ombra delle palme.
    – Vedi Francesco, il mio amico Mirko si è separato dalla moglie e vuole
    rifarsi una vita lontano da tutto il suo passato. Io credo che gli farà bene
    parlare un po’ con te, potresti dargli qualche idea.
    – Io me la sono rifatta tante volte la vita, sai Mirko. Prima sono scappato
    dalla Sicilia, poi dal Brasile mi sono rifugiato all’isola d’Elba, e di lì
    all’Imperiale. Tu sai cos’era l’Imperiale? Era un posto magico, un posto
    dove ognuno di noi poteva fare quello che voleva, o per lo meno sognarlo.
    – Lo so, ci andava mia moglie. Ma non me ne ha mai parlato per bene, ha
    sempre detto che era una cosa della sua adolescenza.
    – È una cosa difficile da spiegare per chi non c’è mai stato. Per me è stato
    tutto per un bel numero di anni. E anche per tutti gli altri, io credo. Era la
    nostra famiglia. Vedi Mirko, ripartire per me vuol dire chiedersi come
    vorresti che la tua vita fosse, buttare giù tutto e provare a ricostruirla come
    vuoi. Perché la tua vita è nelle tue mani, tu sei allo stesso tempo attore e
    regista.
    – Io vorrei solo essere libero. Fino a ora sono sempre stato inquadrato, ho
    sempre fatto quello che gli altri si aspettavano da me e non ho mai preso
    in mano le situazioni. Ho sempre pensato che facendo così sarebbe
    successo qualcosa prima o poi. Ma ora sento che il tempo passa veloce,
    non ho più voglia di aspettare.
    – Bene, allora devi solo chiederti come vuoi vivere la tua vita, e poi farlo.
    Non c’è nessuno che ti trattiene, solo la tua paura.
    – Detta così sembra facile… Non è mica così immediato capire come
    vorresti che la tua vita fosse…
    – Devi pensare a cosa ti dice il tuo cuore adesso. Non pensare al passato,
    non pensare al futuro.
    – Io ho sempre guardato troppo al futuro, forse. Ho sempre fatto le cose in
    prospettiva. Ma è vero, il futuro non esiste, basta un nulla per portare via
    tutto quello che uno aveva faticosamente costruito. È proprio quello che
    mi è successo con mia moglie.
    Come speravo, Mirko aveva preso la cosa per il verso giusto. Stava ad
    ascoltare quello che Franchino aveva da dirgli e cercava di capire come
    ricostruire la sua vita. Era fatta, potevo anche andarmene. La sera, dopo
    cena, Mirko si offrì di aiutare Luna a fare i piatti e io e Franchino andammo
    a fare una passeggiata in spiaggia. Anch’io avevo bisogno di consigliarmi
    con lui.
    – E tu che fai Chicco? Dov’eri andato a finire?
    – Sono scappato via quando hanno preso Niccolò. A Boavista, da un mio
    amico. Anche noi abbiamo un albergo.
    – E cosa ci fai lì?
    – Non lo so neanch’io. Aspetto. Non so neanche cosa. Aspetto di morire.
    Ma ho deciso di andarmene. Non ha più senso che resti lì. Sai che Mirko è
    stato sposato con Alessia? Lei si è innamorata del mio socio Luca e
    probabilmente verrà a vivere a Boavista.
    – E perché non rimani con loro? Non avete recuperato il rapporto?
    – No, anzi, quando è venuta a trovarci abbiamo parlato e siamo stati molto
    bene. Ma non credo che lei abbia voglia di avermi accanto. Anche lei ha
    bisogno di ricominciare, non può farlo con me accanto, le ricordo Niccolò
    e quel periodo della sua vita.
    – Niccolò è stata una tragedia. Ti hanno raccontato della sua
    commemorazione all’Insomnia?
    – No, non ne sapevo niente.
    – Sai, i suoi genitori avevano proibito a tutti noialtri di andare a trovarlo in
    ospedale, e non ci vollero neanche al funerale in chiesa. Allora il sabato
    dopo la sua morte abbiamo organizzato una commemorazione in
    Patchwork Place. Tutti vestiti di nero. Col Principe Maurice vestito da
    cardinale, che lo ha benedetto e ha pregato per lui. Abbiamo raccontato di
    lui ai ragazzi, abbiamo mostrato le sue foto. Secondo me è stata una bella
    cosa. Per tenere vivo il ricordo di lui.
    – Si, credo che sia stata proprio una bella cosa. La sua famiglia eravamo
    noi. Sono contento che ci abbiate pensato voi. Io sono stato un vigliacco a
    scappare così.
    – Non fartene una colpa, non potevi fare altro. O volevi farti arrestare?
    – No, è proprio per quello che sono scappato. Ma non sono sicurissimo di
    aver fatto la cosa giusta. Ora mi ritrovo con cinque anni di più e una vita
    assolutamente inutile su un’isola deserta.
    – Se sei davvero convinto che sia inutile sei ancora in tempo a cambiarla
    Chicco.
    – Tu cosa faresti Francesco?
    – Lo sai cosa farei, io nella mia vita me ne sono sempre andato via quando
    le cose si mettevano male. Ma se torni in Italia finisci in galera.
    – Lo so, ma forse non c’è altra strada. Se non torno in Italia resterò a
    marcire a Boavista. Indesiderato, peraltro, se Alessia verrà da noi.
    – Perché non resti qui?
    – Perché qui c’è il mio passato. L’hai detto prima tu. Mirko viveva
    proiettato nel futuro, io nel passato. Stare qui con te per me non farebbe
    altro che peggiorare le cose. E alla fine Alessia ha ragione, anche stare
    vicino a lei non farebbe che riportarmi continuamente al passato. Io devo
    andare avanti. Avanti ci sarà qualcosa, no?
    Senti, tornando a Mirko, mi farebbe piacere che lo tenessi un po’ con te.
    Poi vedrà lui cosa fare. Credo che abbia molto da imparare da te.
    – Va bene. Lo faccio per te. Capisco che ci tieni.
    – Si, non so esattamente perché ma mi sento un po’ responsabile per lui.
    Fatta. Tutto era sistemato. Finalmente potevo partire. Mi attendevano
    un’altra decina giorni da solo in barca, poi avrei salutato Luca e Bemvindo e
    me ne sarei andato.
    Tornammo a casa. Mirko e Luna erano in veranda, seduti sul dondolo a
    parlare. Franchino entrò in casa, ci preparò un chilum e lo portò fuori.
    Mentre gli altri ridevano e scherzavano, io rimasi in silenzio. Infondo la vita
    poteva essere bella. Bastava vivere il presente e prendere le cose con
    leggerezza. Non potevo più aspettare. Sarei partito l’indomani mattina. Al
    momento di andare a dormire, annunciai la cosa a Mirko. Lui mi disse che
    capiva, e mi ringraziò per tutto quello che avevo fatto per lui. Non c’era più
    molto da dirsi, e sprofondammo nel sonno.



    BENVENUTI IN AFTERHOUR
    Arrivai a Boavista la mattina del 14 luglio. Attraccai la barca al molo e
    scendere fu come rinascere. Non avevo idea di dove andare, di dove fosse
    l’albergo di Luca, non sapevo la lingua. Ma la gente fu gentilissima, si
    sforzava di capire quello che dicevo, e alla fine due ragazzini mi
    accompagnarono all’albergo del “giovane italiano”.
    Quando vidi Luca mi gettai ad abbracciarlo e scoppiai a piangere, forse
    anche solo per la contentezza di aver qualcuno con cui poter parlare dopo
    quasi un mese. Parlando con lui mi stupii della mia incoscienza: ero partito
    senza dire nulla a nessuno, nemmeno a Alessia o a mia sorella. Non sapevo
    nulla, cos’era successo, cosa mi sarebbe successo se fossi rimasto.
    Fortunatamente era stato Luca a mettersi in contatto con Marco, che
    ancora viveva a Firenze, per cercare di capire quello che era successo.
    Dopo la morte di Niccolò la polizia aveva trovato il laboratorio. Alessia
    era stata arrestata e interrogata. Matteo l’avevano preso a Savona, mentre
    cercava il modo di passare la frontiera. Ci sarebbe stato il processo. Un
    casino. Lì per lì mi sentii sollevato di essere scappato via e di avere la
    possibilità di dare alla lavagna un bel colpo di cimosa e ricominciare
    dall’inizio.



    AND YOU SWIM TO THE SUNSET
    Il viaggio di rientro fu tranquillo ma stancante. Fu un sollievo arrivare in
    vista delle isole. Lasciai la barca alla rada e aspettai che Bemvindo venisse a
    prelevarmi col gommone. Ero uno straccio, sporco, la barba di quasi un
    mese. Bemvindo mi disse che Luca era dovuto andare a Sal a sbrigare degli
    affari con gli importatori all’aeroporto. Meglio così, meglio non rivederlo.
    Avrebbe senz’altro cercato di convincermi a restare, e probabilmente avrei
    finito per cedere, raccontandomi che le sue argomentazioni razionali erano
    corrette.
    Allora gli scrissi una lettera in cui spiegavo perché me ne andavo, e
    auguravo a lui e ad Alessia tutto il meglio. Li pregavo che non mi
    dimenticassero, e promisi di tornare a trovarli, un giorno. Poi chiamai
    l’agenzia di viaggi di Sal Rei e mi feci prendere un biglietto aereo per
    Bergamo.
    Il resto della giornata fu riposante. Presi il furgone e feci un giro dell’isola.
    Allora vidi per la prima volta quanto era bella. Quanto erano irreali le
    montagne rosse dell’interno, com’era profondo il colore del mare. Com’era
    suggestiva l’oasi lungo la strada vecchia.
    Cenai con Bemvindo. Non si scompose quando gli dissi che sarei partito il
    giorno dopo. Bemvindo aveva capito tutto, fin dall’inizio.
    Il volo era pieno di italiani che tornavano dalle vacanze. Sembravano tutti
    abbastanza felici di tornare a casa. Eppure la vacanza era finita, si tornava al
    lavoro, alla vita ordinaria. Magari la vita ordinaria non era così brutta,
    pensai. Fui l’ultimo a scendere dall’aereo. Il caldo era insopportabile. Al
    gabbiotto dei finanzieri che distrattamente controllavano i passaporti c’era
    un uomo sulla cinquantina. Gli porsi il mio vecchio passaporto. Lui lo
    guardò un po’ perplesso, dopo pochi secondi alzò lo sguardo con aria
    interrogativa e disse:
    – Ma guardi che questo è scaduto da tre anni!
    Un agente si avvicinò da sinistra, pronto a intervenire. Gli offrii i polsi.
    – Lo so. Ha visto la data di nascita? Compio trent’anni oggi, signor
    commissario, e mi sento molto stanco.


    BUONANOTTE A TUTTI INSOMNIA
    Chiusura della stagione. Cinque di mattina. Le luci si accendono, la pista si
    svuota. Mario Più mette su Smokebelch, l’ultimo disco. Franchino riprende
    il microfono. I ragazzi rimasti si portano sotto la console. Alcuni si
    abbracciano, alcuni piangono.
    “Buonanotte a tutti ragazzi, e guidate con prudenza, che vivere fa più
    paura che morire…”

     
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  2. gallo1269
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    L'ho letto volentieri, ma è un romanzo??
     
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  3. davide_fauglia
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    che spettacolo...mi è sembrato di viverlo questo racconto...anche se mi ha messo un po di tristezza
     
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  4. \\\Flavio
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    sarebbe bello che mettessi la fonte
     
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  5. ultimoparhasar
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    ragazzi questa storia non l'ho trovata su un altro forum dove non dicono la fonte ma solo che è stata scritta da un ragazzo che andava all'imperiale....
    come se io scrivessi una storia e la postassi....
     
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  6. \\\Flavio
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    era solo per fargli i complimenti
     
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  7. nikibimbo
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    stampato, letto tutto con avidità...

    c'è qualcuno che non lo capirà mai questo racconto...
    c'è qualcuno che ci si perderà...
     
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  8. Gori aka LUCAFTER
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    bellissimo questo "romanzo" solo il finale mi ha lasciato un pò male :)
     
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  9. TechnoTom
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    Non so' se sia vero o falso........ma e' bellissimo e in alcuni tratti persino commovente.....Secondo me almeno in piccolo e' una cosa comune a tutti.I periodi piu' importanti della nostra vita lasciano sempre tanti segni,tanti ricordi e tante storie........... :patpat:
     
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    Quale è la morale della storia secondo voi?
     
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  11. TechnoTom
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    Che le cazzate si pagano......
     
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    Sempre il solito cretino :D

    Serio dai...
     
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  13. ovidio1613
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    splendida...
     
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  14. Cupola
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    CITAZIONE (Sputnik @ 28/5/2008, 16:04)
    Sempre il solito cretino :D

    Serio dai...

    Che dovevo fare chimica cazzo...
     
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  15. ultimoparhasar
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    CITAZIONE (Cupola @ 30/5/2008, 16:59)
    CITAZIONE (Sputnik @ 28/5/2008, 16:04)
    Sempre il solito cretino :D

    Serio dai...

    Che dovevo fare chimica cazzo...

    aaaaaaaaaaaaaaaaaaahhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh!
     
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28 replies since 22/5/2008, 10:32   2005 views
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